PARTE PRIMA
L’esperimento
Parigi, rue des Écoles Candice Monroe spalancò gli occhi e si sentì soffocare. Non capiva cosa le stesse succedendo, avrebbe voluto gridare ma non ci riusciva. Cercò di tirarsi su, ma le risultò impossibile: aveva i polsi legati dietro la schiena e le caviglie bloccate. Era in trappola, rinchiusa in un luogo stretto che puzzava di gasolio. La cosa peggiore, tuttavia, era che non ricordava come fosse finita in quella situazione. Provò inutilmente a liberare le mani. Il suo respiro si fece affannoso. Il nastro adesivo che le copriva la bocca quasi non lasciava passare l’aria. Tentò di calmarsi, anzi se lo impose per non morire asfissiata. Rallentare il ritmo cardiaco, respirare col naso. Difficile stando in quel buco, legata con del fil di ferro che le tagliava la pelle dei polsi e delle caviglie. Chiuse gli occhi e si sforzò di razionalizzare, di ricostruire. L’ultimo ricordo nitido che aveva era quello di lei che saliva su un taxi, subito dopo la conferenza alla Sorbonne. Da lì, buio completo.
Decise di concentrarsi sui rumori. Avvertiva un rollio continuo, ogni tanto sobbalzava e, ben presto, si rese anche conto che la sua prigione si muoveva. Doveva trovarsi su un furgone o nel baule di un’automobile. L’andatura diminuì e il mezzo s’arrestò. Sentì una portiera sbattere e, un attimo dopo, il portabagagli si spalancò. A quel punto fu investita dalla luce artificiale di una lampada al neon. Un uomo le sorrise. Un cappello a tesa larga calato sulla fronte e una folta barba a coprirgli il volto. Dal poco che riusciva a intravedere, sembrava che si trovassero in un garage o in un’autorimessa. «Si calmi, dottoressa Monroe. Lei è qui per un esperimento scientifico. Se verranno confermate le sue tesi, forse vivrà. In caso contrario...» L’uomo parlava un inglese perfetto. Da straniero, certo, ma impeccabile. Candice iniziò a tremare. Conosceva il suo nome, l’aveva chiamata dottoressa. Ma di che esperimento si trattava? E poi cosa significava “Se verranno confermate le sue tesi, forse vivrà”? Spalancò gli occhi terrorizzata mentre lui le si avvicinava con una siringa in mano. «Non siamo ancora arrivati a destinazione» la informò. «Cambiamo solo mezzo di trasporto.» La donna cercò di opporsi, ma la tenne ferma infilandole con perizia l’ago nel braccio destro. «Calma» le sussurrò mentre il liquido le scorreva nelle vene. In meno di un minuto Candice perse i sensi, lui la sollevò senza difficoltà e l’adagiò nel portabagagli di un’altra automobile.
2. Milano, piazza Affari L'obbiettivo era in ritardo e Klaus Hoffmann cominciava ad inquietarsi. Secondo le informazioni, Harib Al Alawi, vicepresidente esecutivo della Bank Muscat in Oman, avrebbe dovuto avere un incontro con alcuni broker subito dopo la chiusura delle contrattazioni, vale a dire circa mezz’ora prima, solo che ancora non si era fatto vivo. Milano era soleggiata e umida, e Klaus, che indossava una pesante tuta da motociclista in pelle, sudava copiosamente. A cose fatte, se la sarebbe tolta per gettarla in un cassonetto dei rifiuti insieme ai guanti e alla pistola, ma fino ad allora avrebbe dovuto sopportare quella canicola così atipica per il mese di settembre. La sera precedente, quando era salito sul treno, a Monaco di Baviera pioveva a dirotto e l’aria era frizzante, lì invece pareva fosse ancora piena estate. Si era appostato ormai da ore davanti alla sede della Borsa, un imponente palazzo in marmo bianco corredato all’esterno da quattro grandi piedistalli che sorreggevano ciascuno una statua. Su una targa aveva letto il nome dell’edificio, PALAZZO MEZZANOTTE, dal cognome dell’architetto che l’aveva progettato nel 1932. La cosa che però aveva incuriosito di più il tedesco era la strana scultura che troneggiava al centro della piazza antistante. Alta più di dieci metri, era stata realizzata con il bianchissimo marmo di Carrara e raffigurava un’enorme mano con il dito medio alzato. Vedendola, Klaus aveva accennato un sorriso: quel gesto e il suo significato erano inequivocabili. Restava da capire a chi fosse rivolto: ai risparmiatori, ai broker, ai cittadini che passavano di lì? Non ebbe molto tempo per rifletterci, perché la berlina nera che aspettava finalmente spuntò da via delle Orsole fermandosi proprio davanti alla scalinata del palazzo, e lui si preparò all’azione.
3 Roissy-en-France, rue de la Fossette Il riverbero era accecante. Candice riaprì gli occhi e tentò istintivamente di ripararsi con una mano, ma non ci riuscì: le aveva ancora bloccate, anche se in una posizione diversa. Non era più rinchiusa in un portabagagli, ma si trovava in una stanza senza finestre completamente bianca, con luci fortissime sopra la sua testa. L’ambiente era spoglio, fatta eccezione per la sedia su cui era immobilizzata e il tavolo bianco davanti a lei dove erano posati un microfono e un laptop color argento. Nient’altro. Le era stato tolto il bavaglio e lei iniziò a urlare con quanto fiato aveva in gola. Gridò, chiese aiuto, ma capì subito che era inutile. La stanza era pensata apposta perché nessuno potesse sentirla; un luogo dove condurre in tranquillità “l’esperimento”... Brividi freddi le correvano lungo la schiena, ma non si trattava di paura: era senza vestiti e si vergognava con solo l’intimo indosso. Tutto ciò che aveva era scomparso: la borsa, il cellulare, il cappotto. Via tutto. Nemmeno le scarpe. Ed era una sensazione terribile perché il pavimento era allagato. L’acqua gelida le arrivava quasi alle caviglie, tremava e aveva la pelle d’oca. Urlò nuovamente. Una, due, tre volte. Sentiva la gola secca, moriva di sete, ma cercò d’ignorare quello stimolo. Si dibatté, ma la sedia era imbullonata al pavimento e lei vi era legata con una serie di lacci di cuoio. Le ferite sulle caviglie e sui polsi causate dal fil di ferro che la teneva prigioniera durante il trasporto in auto le erano state medicate e fasciate con della garza. “Quindi, almeno per ora, non mi vuole morta” pensò. Ben presto capì che le era impossibile liberarsi. Non poteva scappare, quindi iniziò a porsi delle domande: chi era l’uomo che l’aveva rapita? Che intenzioni aveva? L’avrebbe torturata? Perché medicarla, allora? Mille pensieri affollavano la testa di Candice. Si sentiva frastornata. Ricordava solo di essere salita su quel taxi e poi di essersi assopita. Proprio lei che soffriva d’insonnia da anni! Mentre razionalizzava, udì un cigolio alle sue spalle. Una porta che si apriva. Non poteva voltare la testa, ma avvertì i passi di qualcuno nell’acqua. Anche l’odore acre di tabacco e caffè. L’aveva già sentito, era dell’uomo con la siringa, quello che l’aveva drogata. Le passò accanto e si andò a mettere sul lato opposto della stanza. Indossava un passamontagna nero. L’unica cosa che lei poteva vedere erano i suoi occhi azzurri. Glaciali. Portava un paio di stivali di gomma verdi, alti fino al ginocchio, dei jeans sgualciti e un maglione marrone. Alle mani aveva guanti da chirurgo, per non lasciare impronte. Candice si sentì rabbrividire. Era praticamente nuda dinanzi a uno sconosciuto. Un maniaco. Legata da cinghie di cuoio come in un gioco sadico e con i piedi immersi nell’acqua. Tremava e non riusciva a parlare, così aspettò che fosse lui a rompere il silenzio con una domanda inquietante. «Allora, Candice: è pronta per il nostro esperimento?»