Nota
Apparso per la prima volta nel 1999, due anni dopo la tragica scomparsa di Gianni Versace, il libro di Maureen Orth – all’epoca, e ancor oggi, giornalista di Vanity Fair – rappresenta tuttora il resoconto più approfondito e completo della vicenda di Andrew Cunanan e dell’omicidio del celebre stilista italiano. Frutto di un imponente e scrupoloso lavoro di ricerca, basato sull’analisi di migliaia di pagine di rapporti di polizia e su oltre quattrocento interviste che l’autrice ha condotto con i protagonisti, i comprimari e i semplici spettatori della storia, e caratterizzato da una rigorosa verifica delle fonti, questo libro non è mai stato oggetto di azioni legali o di contestazioni dirette a bloccarne la diffusione ed è stato costantemente ristampato. In virtù della qualità riconosciuta del materiale qui raccolto da Maureen Orth, su questo libro è basata la seconda stagione della serie TV American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace, prodotta dal canale televisivo statunitense FX e trasmessa in molti Paesi a partire dal mese di gennaio 2018.
Prologo
Il telefono squillò verso l’una di notte, e rispose mio marito, ancora mezzo addormentato. «Vorrei parlare con Maureen Orth. C’è Maureen Orth, la scrittrice?» La voce maschile era insistente. «Chi è lei?» «Voglio parlare dell’articolo.» Una pausa, poi un clic. «Credo sia lui», disse mio marito. «Lui chi?» «Il tizio sul quale stai scrivendo.» «Che cosa? Andrew Cunanan, intendi?» «Strano», commentò mio marito. Poi si girò dall’altra parte e si riaddormentò. Io, invece, ero ormai sveglissima. Passò una decina di giorni, e poche ore dopo che Gianni Versace, il celebre stilista e icona gay, era stato ucciso, il telefono squillò di nuovo, poco dopo l’una di notte. Dovevo partire l’indomani mattina per Miami per scrivere un articolo sull’omicidio Versace, giacché il sospetto numero uno era proprio Andrew Cunanan. Erano quasi due mesi che scrivevo articoli su Cunanan su Vanity Fair, la sua rivista preferita. Oltretutto avevo scoperto che aveva conosciuto Versace diversi anni prima e che era sospettato di avere commesso altri quattro omicidi, tra cui quello del suo migliore amico e dell’unico uomo che avesse mai detto di amare. «Pronto, c’è Maureen Orth?» Mio marito riconobbe la voce: maschile, effeminata. «Chi parla?» Ma la persona all’altro capo del filo ci ripensò. I suoni di fondo dell’interurbana s’interruppero bruscamente. Non saprò mai se in quel momento persi lo scoop della mia vita. In circostanze diverse, apparire su Vanity Fair sarebbe stata la realizzazione di un sogno per Andrew Cunanan. All’inizio del luglio 1997, però, stava per diventare l’oggetto di una delle più vaste cacce all’uomo nella storia dell’FBI. Migliaia di persone avrebbero cercato di stanarlo, ma nessuno ci riuscì. Nove giorni dopo, il suo corpo fu ritrovato in una casa galleggiante di Miami Beach. Non solo, ma i suoi delitti e il suo viaggio sanguinoso e tragico attraverso l’America avrebbero riempito le pagine dei giornali per mesi. Quella che all’inizio fu erroneamente scambiata dai media per una «lite tra amanti omosessuali», circoscritta al mondo gay, balzò sulle prime pagine delle testate più importanti e acquistò rilievo a mano a mano che Cunanan, perdendo ogni scrupolo, diede sfogo a una violenza senza pari: le sue imprese apparvero sulla copertina di Time e Newsweek. Ma prima di uccidere Gianni Versace, prima che la sua terribile reputazione si diffondesse in tutto il mondo, Andrew Cunanan aveva già attraversato un universo parallelo dell’America omosessuale odierna, cominciando da una vita squallida fatti di espedienti e droga, fino ad arrivare al mondo sofisticato dei ricchi che nascondevano la propria omosessualità. Andrew, peraltro, si trovava a suo agio in qualunque ambiente. Sapeva parlare di arte e architettura, ed era ferratissimo in materia di marche e status symbol. Si era fatto mantenere, e aveva soggiornato a Palazzo Gritti a Venezia, oltre che a Saint-Jean-Cap-Ferrat. Poi, però, si era innamorato di un giovane architetto in carriera e, verosimilmente perché l’uomo ricco, più vecchio di lui, che lo manteneva, non ha voluto regalargli la Mercedes dei suoi sogni, aveva rotto con il mondo dorato al quale aveva sempre aspirato. Qualunque cosa riuscisse a procurarsi, Andrew Cunanan voleva sempre di più: più droga, sesso più trasgressivo, vino più pregiato. Per qualche strano motivo, si era convinto che tutto gli fosse dovuto. E perché no, in fondo? Era sempre il centro della festa, il ragazzo più brillante a tavola. A ventisette anni, però, era anche narcisista, egocentrico e vanaglorioso, un bugiardo patologico che s’immaginava realtà alternative ed era tanto intelligente da convincere anche gli altri. Nei gruppi di persone che frequentava, superficiali o semplicemente ingenue, Andrew sapeva rendersi indispensabile. Sotto la vernice del fascino, però, si annidava una psicosi pericolosa, alimentata dai film pornografici violenti che amava guardare e dall’assunzione di cristalli di metanfetamina, cocaina e varie altre sostanze molto diffuse nelle comunità omosessuali, sebbene si tenda a non parlarne. «Chiunque abbia provato la metanfetamina e si sia fatto un brutto viaggio può ripensare a quello che è successo [e capire]», afferma Joe Sullivan, ex utilizzatore di crystal meth che aveva conosciuto Andrew a San Diego. «Mi pare impossibile che a nessuno sia venuto in mente di associare a questo percorso un consumatore di ice.» Dovevo parlare di Andrew Cunanan, e quindi spettava a me cercare di identificare le bugie e mettere a nudo le contraddizioni della sua storia. Non fu facile svelarne i segreti. Era un bel bambino di origini filippine e italiane, con un QI di 147. Ma i suoi genitori avevano un matrimonio infelice, e contavano su di lui, il figlio minore, per salvarli e redimerli. Essendo costantemente sotto pressione, questo intelligentissimo bambino non riuscì mai a formarsi una personalità adulta coerente. Più scoprivo dettagli sul suo conto, più mi rattristava vedere che le droghe e le pratiche sessuali trasgressive lo involgarivano, e la prostituzione praticata a molti livelli diversi lo lasciava pigro e senza difese. Quando si ritrovava da solo, non aveva risorse professionali o morali sulle quali appoggiarsi. Era stato sedotto da un mondo avido, crudo, pornografico che considerava i valori superficiali di giovinezza, bellezza e denaro come i massimi risultati cui aspirare per essere felici. Alla fine, invece, Andrew Cunanan, spiritoso e intelligente, il prodotto di una madre esageratamente cattolica e di un padre altrettanto fanaticamente materialista, aveva ceduto al proprio lato oscuro e malvagio, e aveva inflitto un dolore incalcolabile a chi lo circondava. Nel seguire il suo terribile percorso, sono rimasta affascinata dall’idea che non stavo raccontando solo la storia di un ragazzo tormentato e del suo accesso di violenza. Stavo anche narrando una sorta di odissea attraverso l’America di fine secolo: negli ultimi due decenni si erano formate nuove comunità, in cui il politically correct di un finto crogiolo culturale (le cui componenti rifiutavano di amalgamarsi) paralizzava di fatto l’attività delle forze di polizia e dei media, e dove il denaro serviva a coprire gli errori commessi. Certe cose, naturalmente, non cambiano mai, come per esempio la capacità delle famiglie potenti d’impedire la rivelazione della verità e di proteggere i segreti. Durante i miei viaggi ho scoperto che i gay, intesi come gruppo organizzato, sono in fasi dinamiche e alternanti di formazione politica. La loro capacità di organizzarsi a livello locale ha un impatto sull’influenza che riescono a esercitare sulle forze dell’ordine. A San Francisco e New York, Andrew avrebbe fatto fatica a nascondersi. A South Beach, paradiso dei turisti, invece, la vasta comunità gay non chiede protezione.
Spesso rifiuta perfino l’idea stessa di avere bisogno di protezione, anche sessuale. South Beach a parte, mi sono imbattuta nell’incapacità, in tutto il Paese, di ammettere l’ampio uso di sostanze stupefacenti, e nell’esistenza di strutture create per favorire tale tossicodipendenza, all’interno della comunità gay ma anche da parte delle forze dell’ordine, che sembrano a disagio nell’affrontare certi temi per timore che vengano interpretati come un attacco nei confronti degli omosessuali. Se l’FBI avesse conosciuto meglio l’universo gay della Florida meridionale, per esempio, Andrew Cunanan, uno dei dieci criminali più ricercati, non sarebbe mai riuscito a vivere indisturbato all’hotel Normandy Plaza per quasi due mesi o a lasciare un camioncino rosso rubato in un garage per settimane intere. Invece, la caccia all’uomo che investì tutto il Paese e costò milioni di dollari diede ben pochi risultati. Kevin Rickett, il giovane agente dell’FBI responsabile della squadra speciale per la cattura del fuggitivo in Minnesota, mi disse: «Non vi furono molti progressi durante le indagini perché non riuscimmo mai ad avvicinarci a lui. Non lo raggiungemmo mai». La vicenda, che mi condusse da una costa all’altra, mi portò a scoperte inimmaginabili. Non avevo idea, all’inizio, dell’effetto profondo che il processo di O.J. Simpson aveva avuto sull’accusa, a livello locale e statale: ormai i procuratori locali e statali sono estremamente riluttanti a riconoscere la colpevolezza di un presunto omicida se le prove indiziarie non sono solidissime. «O.J. ha rovinato tutto», mi disse Paul Scrimshaw, investigatore capo a Miami Beach durante le indagini sul caso Versace. «Hanno tutti paura, nessuno vuole fare una figuraccia. Ogni indagine adesso è rovinata per colpa sua. Barry Scheck andrebbe sventrato e squartato.» Alla fine fu confortante vedere l’FBI, almeno a livello nazionale, sforzarsi realmente di rimediare agli errori del passato. I terribili crimini di Andrew Cunanan si rivelarono un catalizzatore positivo che permise di adottare pratiche migliori e favorì la cooperazione tra forze dell’ordine diverse, oltre che tra la polizia e la comunità gay. A tutt’oggi, però, sebbene esista un meccanismo per rintracciare un’auto scomparsa su scala nazionale, non c’è un sistema per trovare una persona scomparsa. Andrew Cunanan era il personaggio perfetto da dare in pasto ai tabloid che, dalla vicenda di O.J., erano diventati avidi di cronaca nera e sensazionalismo. La produttrice della trasmissione Hard Copy Santina Leuci afferma: «Cunanan aveva tutti i numeri giusti: sesso, violenza, ed era un serial killer. Inoltre era in fuga, tutta la polizia gli stava dando la caccia, tutto il Paese era in attesa che venisse catturato». Cosa succede quando una notizia diventa la notizia numero uno in America oggi? Mi trovai all’improvviso nel bel mezzo di uno tsunami. I giornali scandalistici sono l’equivalente odierno dei circhi dei mostri di inizio Novecento. Adesso abbiamo fenomeni da baraccone ventiquattr’ore su ventiquattro che possiamo guardare insieme, ogni giorno e ogni notte, e ogni anno certi individui vengono eletti Numero Uno. Andrew Cunanan – «È gay! È malato! Uccide gente ricca e famosa!» – ebbe quel ruolo per un po’, prima di essere sostituito da una principessa. Sono rimasta colpita dalla quantità e velocità con cui circola il denaro quando esplode una vicenda del genere. Un giornalista tradizionale della carta stampata parte svantaggiato. Regna una sorta di frenesia generale, in cui la copertura mediatica dell’evento influenza le indagini e le reazioni della polizia, e alla quale chiunque lo desideri può contribuire con trasmissioni televisive, stampa, Internet, mostrando le famiglie in lutto durante i funerali, la polizia assediata eccetera. È una soap opera globale, che va in onda ventiquattr’ore al giorno. Le famiglie delle vittime, sopraffatte dagli eventi, vengono date in pasto al mostro affamato, e lo stesso vale per poliziotti e uomini politici. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi trovavo in un bar di gay e lesbiche nel quartiere di Castro, a San Francisco, con uno spiritoso abitante della zona, Doug Conaway, che mi mostrò una griglia di metallo accanto a una banca sull’altro lato della strada. Era coperta di mazzi di fiori avvizziti, in memoria della principessa Diana. I bouquet, disse, erano un modo per ricordarla. Allo stesso modo, il quartiere aveva voluto partecipare al lutto per la perdita di Andrew, che era uno di loro. «Quando sono tornato a casa e ho saputo che avevano sparato a Versace e che pensavano fosse stato Cunanan, mi sono detto: oddio, una volta abitava qui», mi confidò Conaway. «Se non fosse stato per Cunanan, non avremmo visto Diana al funerale di Versace, ed era stato qualcuno del nostro quartiere il responsabile. Poi, però, quand’è stato trovato il corpo di Cunanan, ci sono rimasto male. A cosa devo rimettermi a pensare, adesso? Alla riforma dei finanziamenti delle campagne elettorali? La morte di Diana è stata una manna, una specie di sceneggiato. La sua morte ci ha tenuti occupati un bel po’, qui sulla nostra strada.» Poi mi guardò senza battere ciglio e decise di continuare: «Se adesso Elton John si becca l’AIDS, e Liz Taylor va al suo capezzale, le viene un infarto e muore, e Michael Jackson va al suo funerale e gli cade la faccia, il legame che ci unisce diventerà chiaro a tutti». Alla fine del mio reportage ripensai a quello strano viaggio, dall’Accademia navale di Annapolis al quartier generale dell’FBI a Washington, dai campi di mais del Midwest ai grattacieli di Chicago, da Mr. S Leather di San Francisco al San Francisco Opera. Avevo camminato sulle spiagge esclusive di La Jolla e me l’ero spassata tra i gay di South Beach. Avevo incontrato rappresentanti autorevoli delle forze dell’ordine, spacciatori di crystal meth, investigatori della Squadra Omicidi, master in prigioni sotterranee sadomaso e personal trainer. Alcune delle mie fonti erano in prigione. Avevo conosciuto capi della polizia e ragazzi che si prostituivano e guadagnavano diecimila dollari in un fine settimana. Avevo incontrato perfino il pianista di una casa di tolleranza. Andrew Cunanan aveva provocato un terremoto in tutti quei mondi. Dopo la sua morte, ho cercato di mettere insieme i pezzi.
Redazione Gialli&Neri