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martedì 23 novembre 2021

Un estratto di "La volpe dei Balcani" di Alex Zancai


Trama
Sul Carso triestino non è una notte tran­quilla. L’agente di punta del KOM91, uni­tà segreta dei Vympe­l, si è portato a ri­dosso di un anonimo casolare. Pensa di essere solo, ma non lo è. Nell’oscurità che avvolge il vignet­o, degli spari squar­ciano l’aria. L’oper­azione di tracciamen­to di un ex agente della Gladio fallisce e Popkov, conosciuto come il liquidatore rosso, è costretto a collaborare col target, calandosi nel­la Trieste sotterran­ea, dove gallerie af­ferenti alla Kleine Berlin celano segreti funesti.
La Volpe dei Balcani, ambientato tra Tri­este, Zhovti Vody (U­craina) e Mitrovica (Kosovo), è un intri­cato thriller d’azio­ne che tocca temi di grande attualità.

Prologo 
Carso Triestino, ITALIA 25 settembre 
Il punto X segnato in nero sulla mappa inviatagli da Kozlov doveva essere poco più avanti. Si fece largo tra l’erba alta e si diresse verso una vigna grande quanto due campi da calcio. Era buio pesto ma il visore notturno PNV10T lo aiutava ad orientarsi nel percorso. Oltrepassò una canaletta d’irrigazione asciutta poco oltre due grandi pietre arrotondate con l’effige dell’azienda vinicola proprietaria del vigneto. Sembrava tutto sotto controllo, non c’erano stati ritardi nella tabella di marcia. La vigna appariva deserta e forse ci avrebbe impiegato meno tempo del previsto a eseguire quanto gli era stato chiesto, così sarebbe rientrato prima a Lubjana, da dove era partito. Si stava avvicinando al punto prestabilito: il casello di caccia l’aveva davanti a sé, a circa 50 metri di distanza, mentre più lontano si scorgeva la sagoma di un casolare. L’aria era ferma e qualche zanzara ronzava sopra i grappoli di uva Vitovska pronti per la vendemmia. Il profumo dell’uva matura era intenso, tanto quanto quello dell’erba bagnata che saliva a tratti dal terreno. Yuri Popkov si trovava quasi a ridosso della postazione da cui eseguire la missione di tracciamento. Ad un tratto uno sparo tagliò l’aria umida di fine settembre. Il rimbombo era forte. Troppo per un’arma abituale. Popkov si stese a terra istintivamente, buttandosi giù di petto. Impugnava la semi-automatica GSh-18 ed era pronto ad usarla. Il terreno era viscido e il fango si stava infiltrando nel tessuto dei pantaloni. La porta del casello di caccia si aprì di colpo, cigolando in modo tetro. Era ricoperta di rami secchi e non c’era nessun lucchetto. Il piccolo rifugio si mimetizzava nella vigna ed era stato creato ad hoc per i cacciatori. Ma l’uomo che stava uscendo non lo era. E il venerdì era giornata di pausa venatoria. Gli anfibi militari dello sconosciuto strusciavano tra l’erba invasa da piccole lumache rosse. Un fascio di luce proveniente da una torcia tenuta in mano da un uomo in avvicinamento al casello colpì il portachiavi con l’emblema della città di Trieste, che pendeva dalla tasca sinistra dei suoi jeans rovinati. L’uomo aveva un volto massiccio, dai tratti marcatamente slavi. Stava camminando a passo deciso verso la zona dove stazionava Popkov, mimetizzato come una rana tra l’erba. La luce fioca dei fari in fondo alla strada di campagna si fece sempre più vicina e penetrante. Un furgone anonimo sterzò a tutta velocità sullo sterrato, fermandosi a metà del vigneto, parallelamente ad un altro già fermo. Dei banchi di nebbia stavano salendo dal Golfo. Si metteva male. Popkov strisciò in fretta e furia verso destra, per nascondersi dietro un piccolo pozzo accanto al filare. Stava con la schiena schiacciata sui sassi che sporgevano. Il cuore gli pulsava forte. Un altro sparo, seguito stavolta da una raffica di colpi distinguibili. Qualcuno stava usando un AK47. Da terra Popkov poteva solo intuire da dove provenissero i colpi. Chi stava sparando si trovava sul retro del casolare dentro cui si nascondeva l’uomo per il quale Popkov era andato in missione sul Carso triestino. Dai cespugli venti metri più a destra provenivano fruscii sempre più insistenti. Forse segnalavano la presenza di qualche animale selvatico che viveva sull’altipiano carsico. Dai cespugli invece saltarono fuori quattro uomini vestiti come le truppe d’assalto. Erano armati fino ai denti. Uno di loro aveva il volto graffiato dalle spine dopo essere uscito dal fitto nascondiglio di rovi. A gesti comunicavano le prossime mosse: l’accerchiamento del casolare. Popkov non aveva nessuna squadra di supporto. La sua era una missione solitaria. Adesso si sentiva in trappola. L’avevano visto? Si guardò attorno in cerca di un varco. L’istinto gli diceva di correre verso la strada sterrata. Non sentiva voci dietro di sé. Nessun rumore. Solo il fruscio dell’erba sotto i suoi passi. Era quasi a metà del vigneto, mentre gli spari ripresero a echeggiare nella notte. L’uomo con la torcia in mano si avvicinò a quello uscito dal casello di caccia. “Dov’è Tita?” “E’ morto.” “Sei sicuro?” “L’ha identificato Stern. Il target è stato eliminato.” La fuga finisce quando non senti più i respiri di quelli alle tue spalle. Mentre le parole di Kozlov attraversavano come fulmini la sua mente, un fortissimo colpo alla testa mise fuori combattimento Popkov, lasciandolo privo di sensi. La sagoma scura si piegò verso terra, poggiando due nocche sul terreno umido. Emise un sospiro di fatica e mise mano alle tasche della giacca di Popkov. Trovò la mappa della tenuta, con la X nera sul casello di caccia e una rossa sul target: Tita Brozević. La figura misteriosa lo trascinò per le caviglie fin sotto un albero. Lo spostò vicino ad una tanica di gasolio semivuota che stava pericolosamente sgocciolando vicino alla legnaia. Quindi aspettò che la furia degli uomini armati si esaurisse. Dopo un paio di minuti il furgone nero ripartì a tutta velocità, inghiottito dalla nebbia. Subito dopo anche l’altro furgone se ne andò. Gli spari erano cessati, nell’aria se ne respirava l’odore. L’uomo si caricò Popkov sulle spalle e sparì nell’oscurità.

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