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lunedì 29 novembre 2021

"Il tesoriere" il romanzo d'esordio di Gianluca Calvosa

TRAMA
Italia, 1972. Dopo quattordici anni trascorsi tra i corridoi polverosi di un soffocante archivio alla periferia di Milano, Andrea Ferrante è ormai rassegnato al suo dignitoso quanto anonimo ruolo di piccolo funzionario politico, ben lontano dalla radiosa carriera cui un tempo sembrava destinato. Il rapporto con la moglie Sandra si trascina stancamente. Con suo figlio Umberto, poco più di qualche sporadico litigio.
A strapparlo dal torpore del fallimento è un’inattesa convocazione a Roma dove, contro ogni logica e consuetudine, il nuovo segretario del PCI lo nomina tesoriere del partito. L’entusiasmo per il prestigioso incarico, però, lascia presto il posto allo sconcerto: non solo il suo predecessore è stato trovato morto in circostanze poco chiare, ma il primo compito che Ferrante deve affrontare è interrompere il fiume di denaro proveniente da Mosca.
Sono anni densi di fermento, quelli della Guerra Fredda, delle università occupate, del volantinaggio in fabbrica, dei cortei di piazza e delle prime vittime del terrorismo.
L’Italia è troppo strategica per lasciare l’iniziativa al nemico: comunisti, democristiani, CIA, KGB, servizi deviati, brigatisti e alti prelati del Vaticano si incrociano a Roma, vero epicentro della contrapposizione tra Mosca e Washington, mettendo in scena un conflitto senza precedenti che, anestetizzato dall’abbraccio della Dolce Vita, trasforma la Città Eterna nel parco divertimenti dello spionaggio internazionale.
Gli eventi che hanno catapultato l’inconsapevole tesoriere in un labirinto senza apparente via di uscita risvegliano storie provenienti da lontano che si danno appuntamento sulle sponde del Tevere per fare i conti con il passato.
Storie di soldi, tanti soldi, storie di militanza e di tradimenti, di fantasmi testardi, nobili proletari, truffatori metodici, ministri senza culto, criminali devoti ed eroi inconsapevoli.
In questo avvincente romanzo d’esordio Gianluca Calvosa ricostruisce le dinamiche di una stagione cruciale per la storia italiana, che ancora si riverbera con la sua ombra fosca sul presente.

L'autore 
Gianluca Calvosa (Napoli, 1969) dopo la laurea in ingegneria ha svolto un’intensa attività manageriale per poi fondare OpenEconomics, società leader in Italia nella valutazione d’impatto socioeconomico, e Standard Football, spin-off di analisi finanziaria in ambito sportivo. Dal 2002 al 2006 ha diretto la casa editrice de “Il Riformista”, “New Politics” e “Quaderni Radicali” e nel 2004 ha contribuito alla nascita di “Formiche”, magazine multimediale di economia e politica di cui è tuttora presidente.

"Delitto sotto le torri" del giovane scrittore Luca Viozzi ispirato ad un fatto realmente accaduto

Trama 
In una piccola villa arredata con quadri antichi e librerie piene di letture importanti, si trovava un imponente scrivania in mogano avente tre cassetti gemelli. Il proprietario li teneva chiusi a chiave.
Solo alla sua morte gli eredi scoprirono in parte il segreto nascosto.
I cassetti erano apparentemente identici ma uno era meno profondo degli altri due. Con l’aiuto di un tagliacarte in argento, il pannello che custodiva il doppiofondo venne tolto. All’interno un faldone con dei legacci colmo di carte.
I documenti contenevano un elenco di nomi, cifre e strani simboli che sembravano indecifrabili. Per molto tempo si è cercato di rintracciare le persone della lista. Molte affermarono di non conoscerne il significato. Altre si sono rifiutate di rilasciare informazioni, non volendo ricordare nulla di quella storia. Alcune purtroppo sono scomparse in circostanze misteriose.
Le indagini hanno svelato il lato oscuro e insanguinato di quei fogli.
Quello che segue è solo un romanzo. I nomi dei personaggi e le loro azioni sono invenzioni dell’autore.
Una cosa però è certa. Il Male agisce con modalità che non conosciamo ed spesso è invisibile ad occhi poco esperti.

L'autore
Luca Viozzi nasce ad Ascoli Piceno il 1 marzo 1984.
Laureato in ingegneria, oggi è docente Tecnologie dell'informazione e della comunicazione e presidente dell'associazione culturale Allenamente di Petritoli. Il nonno era commissario di polizia a San Benedetto del Tronto e il romanzo è ispirato a un fatto realmente accaduto.
Redazione Gialli e Neri

La nostra intervista allo scrittore noir più seguito d'italia Paolo Roversi

1. Un benvenuto a Paolo Roversi su Gialli & Neri. Ti ringraziamo per la tua disponibilità e iniziamo subito con la prima domanda. Com’è nata l’idea della rapina del millennio a cui ruota questo nuovo romanzo?
Nel 2013 avevo scritto per il mensile GQ un articolo riguardante questa vicenda. La storia mi è poi rimasta in testa fino ad oggi quando è venuto il momento di scriverla.

2. Che Italia era quella del periodo di "Black Money"?
Diciamo che Black Money racconta di truffe informatiche e di crimini cyber e, dal 2013 a oggi, la situazione non è molto migliorata. Ora ci sono i riscatti "virtuali" come è accaduto qualche mese fa alla regione Lazio. La strada per la sicurezza informatica è ancora lunga.

3. Quale personaggio criminale del tuo romanzo ti ha di più affascinato nel raccontarlo? Ci puoi svelare i suoi pregi e difetti? 
Direi il cattivo di Psychokiller. Ha più difetti che pregi ma ha anche doti nascoste che per ragioni di trama non posso svelare...

4. Il successo di Black Money era tra le tue aspettative?                         
Ci speravo e sono molto contento che stia andando bene!                                                                                            
5. Cosa pensi degli e-book e audiolibri? Secondo te in futuro ci potrà essere un altra forma di comunicazione della letteratura?
Il piacere della lettura o meglio della fruizione di storie per me rimane immutato sia che si legga su carta, su device o si ascolti.
L'uomo da sempre ricerca storie originali: che scelga poi ciascuno di
noi come fruirne.

6. Dopo Black Money? Stai scrivendo qualche altro romanzo? Se sì, di cosa si tratta?
Nella primavera del 2022 uscirà la nuova indagine del mio giornalista hacker Enrico Radeschi.

Redazione Gialli e Neri

domenica 28 novembre 2021

"I quattro cantoni" l'ottava indagine di Lolita Lobosco della scrittrice Gabriella Genisi

I quattro cantoni
La trama
L'ottava indagine del commissario Lolita Lobosco Bari, inizio di dicembre, mancano pochi giorni a San Nicola. Mentre la commissaria Lolita Lobosco e il suo nuovo amore Giancarlo Caruso si godono la notte in una casetta di pescatori a Polignano, nella vicina Torre a Mare un uomo viene ammazzato nella sua villetta; sul corpo saranno trovate tracce di orrende sevizie. La sera dopo, una Mercedes scura cerca di sfuggire a un posto di blocco e si schianta contro un muro: due uomini di etnia rom, padre e figlio, muoiono sul colpo. Quando si scopre che il dna di uno dei due era anche sulla scena del crimine, il caso sembra chiuso, ma l’origine etnica dei presunti assassini non fa che soffiare sul fuoco di un clima di odio e razzismo strisciante. Solo Lolita – che continua a dividere le sue passioni tra relazioni complicate, cucina del Sud e dedizione alla giustizia – non è convinta dell’esito delle indagini: alcuni dettagli non quadrano proprio. Tanto più che inspiegabili delitti, nelle settimane seguenti, cominciano a insanguinare la città. Un filo sembra legare queste morti misteriose, e la bella commissaria cercherà di dipanarlo a rischio della sua carriera, e della sua stessa vita. In una Puglia fascinosa e crepuscolare, va in scena una nuova avventura della spavalda poliziotta barese, che la consacra come originale protagonista della commedia noir all’italiana.

I quattro cantoni
L'autrice. 
Gabriella Genisi è nata nel 1965. Ha scritto numerosi libri e ha inventato il personaggio del commissario Lolita Lobosco, la poliziotta più sexy del Mediterraneo, protagonista di alcuni romanzi pubblicati da Sonzogno: La circonferenza delle arance (2010), Giallo ciliegia (2011), Uva noir (2012), Gioco pericoloso (2014), Spaghetti all'assassina (2015), Mare nero (2016) e Dopo tanta nebbia (2017). Ha inoltre scritto: La teoria di Camila. Una nuova geografia familiare (Perrone, 2018) e Pizzica amara (Rizzoli, 2019).

sabato 27 novembre 2021

"Mangiaracina investigazioni", la serie tv ambientata a Borgo Vecchio sbarca su Amazon Prime Video


La serie tv ambientata a Palermo e tratta dal primo dei miei romanzi dedicati alla famiglia Mangiaracina sbarca su Amazon Prime Video in Italia, Stati Uniti e Regno Unito. Si tratta di "Mangiaracina Investigazioni" una miniserie tratta dai romanzi di Valentina Gebbia e dedicati all’Agenzia Mangiaracina Investigazioni. La sceneggiatura ha ottenuto il contributo del Mibac nel 2018, la produzione è stata realizzata con la co-organizzazione del Comune di Palermo. Quattro gli episodi di genere giallo - commedia - family (il primo è "A qualcuno piace il caldo") con protagonista la sgangherata famiglia di investigatori Mangiaracina, la cui agenzia ha sede nell'antica cucina di casa a Borgo Vecchio. Troupe e cast interamente siciliani, con protagonisti Massimo Marotta, Sabrina Lembo, Anna Attademo e Miriam Taze, insieme a volti noti e meno noti del panorama isolano, perfettamente calati nei personaggi in bilico tra suspense e umorismo.

Valentina Gebbia
Sinossi

Notte d’agosto, scirocco. Un cadavere sfigurato viene ritrovato sulla spiaggia di una borgata marinara palermitana. Addosso ha degli inquietanti segnali: una coda di cavallo stretta tra le mani e un osso d’oliva nell’ombelico. Il caso si presenta subito parecchio complicato e, in vista di Ferragosto, c’è il rischio di trovare un colpevole qualsiasi per poi riparlarne a settembre. Allo scopo di salvare l’autore del ritrovamento, Terio Mangiaracina, pescatore-per-caso e possibile assassino, la straripante sorella Fana s’inventa la sgangherata Mangiaracina Investigazioni e decide d’indagare autonomamente sul delitto. Con l’aiuto della madre laureata in “autobus”, il coinvolgimento del confusionario quartiere di Borgo Vecchio e del cugino carabiniere, il caso sarà risolto fra malocchi, tradimenti e vertigini amorose, immersi nelle suggestioni antiche e moderne di una città Patrimonio dell’Umanità, affascinante e misteriosa, mosaico di culture e d’emozioni senza tempo: Palermo.

Produzione 

Si tratta di una produzione indipendente, una coraggiosa produzione low cost che non si è mai arresa lungo il percorso irto di difficoltà, con la regia della stessa Valentina Gebbia e una troupe interamente siciliana. Un’opportunità per dare valore e chance alle professionalità tecniche del territorio, e ad attori bravi e carismatici, spesso abituati solo a raccogliere le briciole delle grosse produzioni che volentieri girano in Sicilia, come il protagonista Massimo Marotta, Sabrina Lembo, l’affascinante Anna Attademo, l’esordiente Marianna Ruina nel ruolo della mamma Assunta, o Miriam Taze, palermitana di origini multi-sfaccettate, che parla con l’accento più tipico di tutto il cast. La Serie ha uno stile suo, indolente come il palermitano classico, surreale a tratti e con un sapore di tenerezza in filigrana che la rende adatta agli spettatori di ogni età, capace di invitare alla condivisione e al calore familiare che in tanti hanno riscoperto per le vicissitudini che stiamo vivendo.

venerdì 26 novembre 2021

«Blanca» la grande fiction di Rai1 tratta dai libri della scrittrice Patrizia Rinaldi

LA SERIE TV. A una fiction di Rai1 che inserisce nel racconto in maniera non banale una citazione tratta dalla canzone ’Â çímma di De Andrè si perdona tutto: le scivolate melodrammatiche, le cartoline da Camogli, il vecchio trucco di mescolare indagini e sentimenti. In realtà, c’è poco da perdonare: tratto liberamente dall’omonimo romanzo di Patrizia Rinaldi, Blanca è un crime drama che racconta la storia di una ragazza che perde la vista all’età di 12 anni a seguito di un incendio. Da adulta coltiva il sogno di lavorare in polizia, anche per sfruttare la sua sensibilità nella tecnica del décodage, la capacità di analizzare nelle telefonate e nelle intercettazioni suoni e rumori che sfuggono a un udito meno sviluppato del suo. La Lux Vide ha messo a segno un’altra delle sue macchine da sogno. Ha inserito un impianto narrativo ben collaudato (il poliziesco che stinge sapientemente nel rosa), in grado di risolvere un caso in ogni puntata (con il pubblico di Rai1 è un azzardo giocare troppo con le trame orizzontali, quelle che si estendono per diversi episodi), in uno scenario poco sfruttato dal cinema italiano: Genova e dintorni, con le sue strade, il suo porto, la ferita del ponte Morandi ancora aperta. E poi una bella ragazza (Maria Chiara Giannetta) non vedente che risolve casi di femminicidio suscita subito una particolare simpatia. Per non parlare del suo cane Linneo, che l’aiuta nella vita di tutti i giorni e anche nelle indagini. Tutto si gioca sullo sguardo «diverso» di Blanca che le permette di vincere la diffidenza con cui è stata accolta nel commissariato San Teodoro. La regia dei sei episodi della fiction è di Jan Maria Michelini e Giacomo Martelli. Una curiosità: Blanca è la prima serie televisiva al mondo girata in olofonia, una speciale tecnica di registrazione del suono che permette, tramite cuffie, di percepire il suono come lo sente una persona non vedente.

LIBRI
La storia di Blanca Ferrando è tratta dalla serie di libri scritti dalla scrittrice napoletana Patrizia Rinaldi. Il primo, “Blanca”, risale al 2009; a questo hanno fatto seguito “Tre, numero imperfetto” (2012), “Rosso Caldo” (2014) e “La danza dei veleni” (2019), tutti editi da Edizioni e/o.

LA SCRITTRICE
Patrizia Rinaldi è un'autrice italiana nata a Napoli nel 1960. È laureata in filosofia e si è specializzata in scrittura teatrale. Dal 2010 partecipa a progetti letterari presso l'Istituto penale minorile di Nisida. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo la graphic novel Adesso scappa (Sinnos 2014), Federico il pazzo, vincitore del premio Leggimi Forte 2015 e finalista al premio Andersen 2015 (Sinnos 2014), Mare giallo (Sinnos 2012), Rock sentimentale (El 2011), Piano Forte (Sinnos 2009). Per E/O Edizioni ha pubblicato, inoltre, Tre, numero imperfetto (2012), Blanca (2013), Rosso caldo (2014) Ma già prima di giugno (2015) e La danza dei veleni (2019).

Vi presentiamo "Il signore di notte" di Gustavo Vitali

Trama
Venezia, 16 aprile 1605
Viene rinvenuto nella sua modesta dimora il cadavere di un nobile caduto in miseria, primo delitto di un giallo fitto fitto che ha come sfondo la Venezia alle soglie del Barocco.
Sul luogo si precipita il protagonista del racconto, Francesco Barbarigo. Come “Il Signore di Notte”, dà il titolo al racconto e richiama espressamente la magistratura incaricata dell’ordine pubblico, sei giudici e insieme capi della polizia. Si tratta di una persona realmente vissuta ai tempi così come i principali personaggi della storia che, al contrario, è di pura invenzione. Questo particolare ha comportato un copioso lavoro di ricerca come documentato nella bibliografia del libro.
È solo il primo dei delitti che affiorano in una trama intensa e intrigante. Sono coinvolte le figure più varie, da quelle di primo piano, a quelle defilate nei contorni. L’autore apre così un’ampia carrellata su aristocratici ricconi e quelli che vivacchiano malamente, mercanti, usurai, bari, prostitute e altri. Nella vicenda tutti recitano i rispettivi ruoli e la contestualizzano in quella società veneziana che si era appena lasciata alle spalle un secolo di splendore per infilarsi in un lento declino. Compaiono anche personaggi sgradevoli, come i “bravi”, perché il tempo del declino è anche il loro, accomunati agli sgherri da una violenza sordida e sopraffattrice.
Sempre nell’ottica di addentrare il libro nella sua epoca, ecco l’aggiunta di brevi divagazioni su curiosità, usi e costumi, aneddoti, fatti e fatterelli. Costituiscono un bagaglio di informazioni sulla storia della Serenissima, senza interrompere la narrazione e senza che gli attori si defilino da questa.
Un discorso a parte merita la figura del protagonista. Se qualcuno spera nello stereotipo dell’eroe positivo, resterà deluso. Il Barbarigo è un uomo contorto che affronta le indagini con una superficialità pari solo alla sua spocchia. Vorrebbe passare come chi sa il fatto suo, spargere sicurezza, ma nel suo intimo covano ansie e antichi dolori. Non sa come cavarsi dagli impicci, cambia idea e umore da un momento all’altro, insegue ipotesi stravaganti e indaga su persone del tutto estranee al delitto. Il linguaggio è spiccio, crudo, spesso beffardo e dissacratorio, mette in ridicolo difetti e difettucci del protagonista e insieme quelli della società del tempo.
Sull’onda dell’improvvisazione e di una acclarata incapacità non si fa mancare nulla, nemmeno una relazione disinvolta, o quella che lui vorrebbe tale, con una dama tanto bella, quanto indecifrabile. Non capisce nulla neppure di questo strambo amore che gli causa presto nuovi turbamenti.
Cosicché nelle indagini, come pure nel letto, finisce con il collezionare una serie di disfatte clamorose fino a quando in suo aiuto accorre un capitano delle guardie che ha tutta l’esperienza e l’astuzia che mancano al magistrato. Tuttavia i due dovranno faticare ancora un bel pezzo per scrivere la parola fine a tutto il giallo che nel frattempo si è infittito di colpi di scena, agguati e delitti, compresi quelli che riemergono dal passato. Il finale sarà inaspettato e sorprendente.
Gustavo Vitali descrive la sua biografia. 
Sono nato a Milano il 4 agosto (non dico l’anno perché al riguardo sono un tantino ritrosetto...). Da oltre trent’anni vivo nella bergamasca dove mi sono sposato con due figli, Federico e Claudio.
Istruzione: liceo scientifico e scienze politiche. Nessuna lode particolare: “È un ragazzo intelligente, ma non si applica abbastanza!” l’invariabile, ancorché poco appagante, giudizio dei miei insegnanti. Cosicché anni dopo la tesi di laurea è finita in soffitta, complice l’attività di famiglia, poi mia, dalla quale sono stato risucchiato. Ho anche fondato e diretto per una dozzina d’anni una rivista di settore. Passioni: il volo in parapendio ultima in ordine di tempo, cosa che mi ha portato a ricoprire da anni il ruolo di ufficio stampa nella FIVL (Associazione Nazionale Italiana Volo Libero – parapendio e deltaplano). Ovvio che non è stata la passione per il volo a spingermi a scrivere “Il Signore di Notte”, un giallo ambientato nella Venezia dei dogi! Lo è stata, invece, quella per la storia, da sempre. Ricordo che da ragazzino preferivo i sussidiari ai fumetti e leggevo la storia antica come fosse un romanzo d’avventura. Il vizio è rimasto in giovinezza e poi oltre, fino a oggi. Però come sia sorto l’interesse per la storia dell’antica Serenissima in particolare non saprei dire. Fatto sta che ho cominciato a leggere autori come Alvise Zorzi e altri storici che si sono occupati della sua storia lunga undici, forse tredici secoli. Quindi sono un lettore a senso unico: storia e ancora storia con qualche deviazione per la letteratura gialla. Classici quanto basta: I Promessi Sposi e I Miserabili (in francese!) me li hanno fatti ingozzare al liceo insieme a qualche cantico della Divina Commedia da recitare poi a memoria. Scampato all’Orlando Furioso. Poi ho affrontato Addio alle Armi, ma ho resistito solo fino a metà del libro, ancora meno Guerra e Pace. Divorati Granzotto, Spinosa, Mark Smith e altri. Congiunto alla passione per la storia, il vizio di non saper trattenere la penna dalla carta o i ditini dalla Olivetti Lettera 32 ai tempi, poi dalla tastiera fin dagli anni ’70, quando i personal computer costavano un botto. 
Ecco perché “Il Signore di Notte” è insieme un racconto giallo con brevi riferimenti storici, una trama inventata, ma i personaggi sono vissuti davvero nel 1605, l’epoca dove l’ho ambientato.

giovedì 25 novembre 2021

Il prologo dello straordinario Noir "Suburra" di Bonini e De Cataldo

PROLOGO
Roma, luglio 1993 
Nel buio umido della notte d’estate, tre uomini attendevano a bordo di un Fiat Ducato dei carabinieri parcheggiato sul lungotevere. Indossavano divise dell’arma, ma erano criminali. Dalla parte sbagliata di Roma li conoscevano con i nomi di battaglia di Botola, Lothar e Mandrake. Botola scese dal furgone e si affacciò sul fiume. Cacciò dalla tasca un novellino Gentilini sbriciolato e lo depose sulla spalletta. Arretrò di qualche passo e rimase a fissare un gabbiano che affondava il becco tra i rimasugli del biscotto. – Che belli i gabbiani. Risalí sul furgone. Quello che chiamavano Lothar si accese l’ennesima sigaretta e sbuffò. – Io me so’ rotto. Che stiamo aspettando? – Te l’appoggio! – disse, convinto, Mandrake. Botola scosse la testa, inflessibile. – Il Samurai ha detto alle due precise. Non un minuto prima, non uno dopo. Non è ancora il momento. Gli altri due protestarono. Ma di che parliamo? Un anticipo di dieci minuti? E che sarà mai? E poi, sulla strada, sino a prova contraria, ci stavano loro, mica il Samurai. Che, per caso, il Samurai ci aveva gli occhi dappertutto? Che era, il Padreterno, che li poteva controllare istante per istante?
– Il Padreterno forse no, – concesse Botola, con un sospiro. – Ma se me parli del diavolo, ci sei vicino. – Seeh, il diavolo! – ironizzò Mandrake. – È ’n omo come noi! E poi me so’ stufato: il Samurai de qua, il Samurai de là… Io, te dovessi di’, non l’ho mai visto sporcarsi le mani, ’sto Samurai… Bravo a parlare, chi lo discute… ma è facile, quando il rischio se lo caricano l’altri. Botola li squadrò, con un mezzo sorriso di commiserazione. Proprio non si rendevano conto, poveri cristi! – Ve lo ricordate il Pigna? A Lothar e a Mandrake quel nome non diceva niente. Botola raccontò una storia. C’è questo pugile del Mandrione, di nome fa Sauro, detto Pigna per via di un sinistro micidiale. Un bestione, tanto forte di braccia quanto scarso a cervello, povero Pigna. Se fosse stato appena un po’ piú furbo, non si sarebbe appiccicato col Samurai per una questione di droga. Sí, perché a un certo punto, dopo un affare di incontri truccati, la Federazione gli revoca la licenza per combattere, e il Pigna si mette a spingere un po’ di roba per conto del Samurai. Il guaio è che il Pigna si crede un gran furbo. Prima comincia a fare la cresta, poi, quando si sente sicuro, arraffa un grosso carico, lo vende per conto suo e sparisce. Resta nascosto tre-quattro mesi, e un bel giorno ricompare. Coi soldi fregati al Samurai s’è comperato una palestra, ha reclutato quattro ragazzotti di borgata e s’è messo a spacciare in proprio. Il Samurai prova a recuperarlo con le buone e va a trovarlo in palestra. Gli propone un accordo ragionevole: il cinquanta per cento della proprietà della palestra e di tutto lo spaccio in cambio della pace. Pigna non sente ragioni. Si chiama i suoi ragazzotti e attacca a testa bassa. In cinque contro uno il Samurai si difende come può, ma alla fine ne esce malconcio. Lo scaricano in un vicolo, mezzo morto, e ci vuole un bel po’ perché si riprenda. Una sera, in palestra si presenta un tipo mai visto prima. Si iscrive, comincia a fare un po’ di pesi, attacca bottone con i ragazzotti del capo. Quand’è l’orario di chiusura, e Pigna è rimasto da solo coi suoi fedelissimi, il tipo mai visto prima tira fuori una mitraglietta Skorpion, come quelle che usavano i terroristi, e li sbatte tutti al muro. Passano cinque minuti. Pigna e i suoi cercano in tutti i modi di far parlare il tipo, che se ne resta muto come un pesce. Finalmente, la porta si apre e arriva lui. Il Samurai. Sotto lo spolverino porta un kimono e fra le mani ha una katana, la spada affilatissima dei giapponesi. Punta diritto al Pigna e gli tiene un discorsetto: sui soldi ci potevo passare sopra, ma sull’umiliazione no. Perciò, caro Pigna, gli dice, tu adesso con questa spada ti apri la pancia, e io ti guarderò morire. In cambio non torcerò un capello ai tuoi pischelli. Pigna si mette a frignare. Chiede perdono. Riconosce l’errore. Gli passerà la palestra, tutta la roba che gli avanza, i contatti dello spaccio. Il Samurai fa un sospiro, alza la spada, e con un colpo solo taglia la testa a uno dei ragazzotti. Pigna scoppia a piangere. I pischelli scoppiano a piangere. Uno di loro si fa avanti e si offre al Samurai come esecutore della condanna. Il Samurai lo squadra e lo decapita. Vedi, Pigna, non ti sai scegliere gli uomini, sospira, non ti sono fedeli… A questo punto, tutti e tre, Pigna e i due sopravvissuti, tentano un attacco disperato. – E che ve lo dico a fare? – concluse Botola. – Il Samurai li fece a pezzi. L’amico non sparò nemmeno un colpo. Poi misero gli avanzi nei sacchi e li buttarono nel Tevere. Lothar e Mandrake fissavano il narratore, sconcertati. – Mi sa tanto che è una cazzata, – azzardò Mandrake. – È ora, – tagliò corto Botola. – Muoviamoci. Raggiunsero piazzale Clodio. Gli abbaglianti del Ducato lampeggiarono tre volte in direzione della porta carraia del palazzo di giustizia, che dopo qualche secondo prese ad aprirsi lentamente. Il militare alla garitta si avvicinò senza fretta al lato di guida. Riconobbe Botola e con un cenno della mano invitò il furgone a proseguire. Risalirono a passo d’uomo la rampa in cemento armato che portava al parcheggio della palazzina C, dove un sistema di porte blindate proteggeva il caveau dell’agenzia 91 della Banca di Roma. Lo sportello interno del tribunale. Il forziere che custodiva le ricchezze e i segreti di magistrati, avvocati, notai, sbirri. Il doppio fondo di quella che chiamano Giustizia e che è solo Potere. Botola afferrò dalla tasca dello sportello l’elenco delle novecento cassette di sicurezza della banca. Il Samurai ne aveva cerchiate centonovantasette. E solo quelle andavano aperte. Lothar afferrò due grossi sacchi di iuta. Mandrake controllò la borsa degli attrezzi e l’anello dalle cinquanta chiavi per il quale a Roma c’era un solo cassettaro: lui. Tutti e tre calzarono guanti neri in pelle aderente. I carabinieri che li aspettavano avevano fatto il loro dovere. Le porte blindate che davano accesso al caveau erano aperte, gli allarmi e il sistema video a circuito chiuso disattivati. Botola incrociò lo sguardo dei militari con una smorfia di disprezzo. Quei due puzzavano di paura e disonore. L’odore che dànno le guardie quando sono marce. E liquidò il piú giovane con un buffetto sulla guancia. Conoscevano il caveau a memoria. Negli ultimi due mesi, Botola, Lothar e Mandrake c’erano scesi almeno una decina di volte, accompagnati da uno dei cassieri dell’agenzia. Un tipo sulla cinquantina con il vizietto della coca e delle femmine. S’era messo a disposizione come un cagnolino. Aveva indicato il titolare di ogni cassetta consentendo al Samurai una cernita. Aveva fornito planimetrie e tenuto aggiornata la lista degli accessi. Aveva reso possibile il calco delle chiavi che aprivano i cancelli interni del cuore di quella banca. In fondo, restava la parte piú semplice. Mettere le mani su quel ben di dio. – Io me levo ’sta divisa, – azzardò Mandrake. – È che proprio nun me ce sento guardia. – A chi lo dici, frate’! – solidarizzò Lothar. Botola autorizzò. Purché si facesse in fretta: la buona sorte non poteva assisterli in eterno, e anche i piani meglio congegnati possono infrangersi sul destino bizzarro. Decisero di lavorare al buio. Con la sola luce di due grandi torce marine. Mandrake volò. Come sapeva e doveva. E le prime centosettantaquattro cassette si aprirono come scatole di cioccolatini...

Gli Autori:




 

martedì 23 novembre 2021

Un estratto di "La volpe dei Balcani" di Alex Zancai


Trama
Sul Carso triestino non è una notte tran­quilla. L’agente di punta del KOM91, uni­tà segreta dei Vympe­l, si è portato a ri­dosso di un anonimo casolare. Pensa di essere solo, ma non lo è. Nell’oscurità che avvolge il vignet­o, degli spari squar­ciano l’aria. L’oper­azione di tracciamen­to di un ex agente della Gladio fallisce e Popkov, conosciuto come il liquidatore rosso, è costretto a collaborare col target, calandosi nel­la Trieste sotterran­ea, dove gallerie af­ferenti alla Kleine Berlin celano segreti funesti.
La Volpe dei Balcani, ambientato tra Tri­este, Zhovti Vody (U­craina) e Mitrovica (Kosovo), è un intri­cato thriller d’azio­ne che tocca temi di grande attualità.

Prologo 
Carso Triestino, ITALIA 25 settembre 
Il punto X segnato in nero sulla mappa inviatagli da Kozlov doveva essere poco più avanti. Si fece largo tra l’erba alta e si diresse verso una vigna grande quanto due campi da calcio. Era buio pesto ma il visore notturno PNV10T lo aiutava ad orientarsi nel percorso. Oltrepassò una canaletta d’irrigazione asciutta poco oltre due grandi pietre arrotondate con l’effige dell’azienda vinicola proprietaria del vigneto. Sembrava tutto sotto controllo, non c’erano stati ritardi nella tabella di marcia. La vigna appariva deserta e forse ci avrebbe impiegato meno tempo del previsto a eseguire quanto gli era stato chiesto, così sarebbe rientrato prima a Lubjana, da dove era partito. Si stava avvicinando al punto prestabilito: il casello di caccia l’aveva davanti a sé, a circa 50 metri di distanza, mentre più lontano si scorgeva la sagoma di un casolare. L’aria era ferma e qualche zanzara ronzava sopra i grappoli di uva Vitovska pronti per la vendemmia. Il profumo dell’uva matura era intenso, tanto quanto quello dell’erba bagnata che saliva a tratti dal terreno. Yuri Popkov si trovava quasi a ridosso della postazione da cui eseguire la missione di tracciamento. Ad un tratto uno sparo tagliò l’aria umida di fine settembre. Il rimbombo era forte. Troppo per un’arma abituale. Popkov si stese a terra istintivamente, buttandosi giù di petto. Impugnava la semi-automatica GSh-18 ed era pronto ad usarla. Il terreno era viscido e il fango si stava infiltrando nel tessuto dei pantaloni. La porta del casello di caccia si aprì di colpo, cigolando in modo tetro. Era ricoperta di rami secchi e non c’era nessun lucchetto. Il piccolo rifugio si mimetizzava nella vigna ed era stato creato ad hoc per i cacciatori. Ma l’uomo che stava uscendo non lo era. E il venerdì era giornata di pausa venatoria. Gli anfibi militari dello sconosciuto strusciavano tra l’erba invasa da piccole lumache rosse. Un fascio di luce proveniente da una torcia tenuta in mano da un uomo in avvicinamento al casello colpì il portachiavi con l’emblema della città di Trieste, che pendeva dalla tasca sinistra dei suoi jeans rovinati. L’uomo aveva un volto massiccio, dai tratti marcatamente slavi. Stava camminando a passo deciso verso la zona dove stazionava Popkov, mimetizzato come una rana tra l’erba. La luce fioca dei fari in fondo alla strada di campagna si fece sempre più vicina e penetrante. Un furgone anonimo sterzò a tutta velocità sullo sterrato, fermandosi a metà del vigneto, parallelamente ad un altro già fermo. Dei banchi di nebbia stavano salendo dal Golfo. Si metteva male. Popkov strisciò in fretta e furia verso destra, per nascondersi dietro un piccolo pozzo accanto al filare. Stava con la schiena schiacciata sui sassi che sporgevano. Il cuore gli pulsava forte. Un altro sparo, seguito stavolta da una raffica di colpi distinguibili. Qualcuno stava usando un AK47. Da terra Popkov poteva solo intuire da dove provenissero i colpi. Chi stava sparando si trovava sul retro del casolare dentro cui si nascondeva l’uomo per il quale Popkov era andato in missione sul Carso triestino. Dai cespugli venti metri più a destra provenivano fruscii sempre più insistenti. Forse segnalavano la presenza di qualche animale selvatico che viveva sull’altipiano carsico. Dai cespugli invece saltarono fuori quattro uomini vestiti come le truppe d’assalto. Erano armati fino ai denti. Uno di loro aveva il volto graffiato dalle spine dopo essere uscito dal fitto nascondiglio di rovi. A gesti comunicavano le prossime mosse: l’accerchiamento del casolare. Popkov non aveva nessuna squadra di supporto. La sua era una missione solitaria. Adesso si sentiva in trappola. L’avevano visto? Si guardò attorno in cerca di un varco. L’istinto gli diceva di correre verso la strada sterrata. Non sentiva voci dietro di sé. Nessun rumore. Solo il fruscio dell’erba sotto i suoi passi. Era quasi a metà del vigneto, mentre gli spari ripresero a echeggiare nella notte. L’uomo con la torcia in mano si avvicinò a quello uscito dal casello di caccia. “Dov’è Tita?” “E’ morto.” “Sei sicuro?” “L’ha identificato Stern. Il target è stato eliminato.” La fuga finisce quando non senti più i respiri di quelli alle tue spalle. Mentre le parole di Kozlov attraversavano come fulmini la sua mente, un fortissimo colpo alla testa mise fuori combattimento Popkov, lasciandolo privo di sensi. La sagoma scura si piegò verso terra, poggiando due nocche sul terreno umido. Emise un sospiro di fatica e mise mano alle tasche della giacca di Popkov. Trovò la mappa della tenuta, con la X nera sul casello di caccia e una rossa sul target: Tita Brozević. La figura misteriosa lo trascinò per le caviglie fin sotto un albero. Lo spostò vicino ad una tanica di gasolio semivuota che stava pericolosamente sgocciolando vicino alla legnaia. Quindi aspettò che la furia degli uomini armati si esaurisse. Dopo un paio di minuti il furgone nero ripartì a tutta velocità, inghiottito dalla nebbia. Subito dopo anche l’altro furgone se ne andò. Gli spari erano cessati, nell’aria se ne respirava l’odore. L’uomo si caricò Popkov sulle spalle e sparì nell’oscurità.

News novembre: La stanza delle illusioni di Diego Pitea

Trama
Roberto Calli, noto avvocato penalista di Roma, si rivolge a Richard Dale, psicologo con la sindrome di Asperger e già collaboratore della Polizia in diverse indagini, per sottoporgli un problema: al suo assistito, un finanziere di nome Cesare Borghi dal passato avvolto nel mistero, vengono indirizzate delle lettere anonime nelle quali si preannuncia la sua morte. Sembra un caso banale e Richard è restio ad accettare ma, prima di congedare Calli, nota un'incongruenza: l'indirizzo nelle buste è scritto a mano e la scrittura sembra quella di un bambino. Troppi elementi strani per una mente sempre alla ricerca di misteri come la sua. Parte così un caso che lo porterà, insieme alla moglie Monica, in una villa sulle Dolomiti con dei perfetti sconosciuti e all'interno della quale accadranno avvenimenti sconcertanti e inspiegabili: un uomo che cammina in piena notte con una scala in mano, un anello con un'iscrizione misteriosa, un ritaglio di giornale di trent'anni prima, un quadro famoso che sembra celare un segreto. Non ultima, la sfida intellettuale più ardua per un investigatore: un omicidio compiuto in una camera chiusa dall'interno. Sono questi gli enigmi con i quali dovrà scontrarsi Richard Dale per venire a capo di un caso che sembra uscito direttamente dalle pagine di un libro di Agatha Christie.

domenica 21 novembre 2021

Vi presentiamo il thriller di Marco Eletti

Trama
Doveva essere un incontro per sancire la pace fra Israele e lo Stato di Palestina, ma all'improvviso tutto precipita: il presidente dell'ANP, Arif Benaldjia, inizia ad accusare gli israeliani di avere attentato alla sua vita. Un tentativo di avvelenamento? O solo un malore? Poco importa perché la Palestina, con l'appoggio dell'Iran e dell'intero mondo islamico, concede un inquietante quanto spaventoso ultimatum a Israele: confessare al mondo intero il tentativo di uccidere Benaldjia entro cinque giorni. In caso contrario, la rappresaglia è già pronta. Da subito gli alleati storici di Israele prendono le sue difese, ma non sembra esserci spazio per ulteriori accordi. Benaldjia è in fin di vita, il tempo scorre inesorabile verso l'ultimatum, e solo una cosa può impedire un nuovo, palpabile Olocausto: una misteriosa valigetta che sembra essere l'unica soluzione alla più grave crisi mediorientale mai vista, e la speranza risiederà nei tre uomini che dovranno scortarla nel suo viaggio dagli Stati Uniti alla Siria. Ma avranno tutt'altro che vita facile, e quella che doveva essere una semplice missione si trasformerà in un inferno.

L'estratto del nuovo thriller di Paolo Roversi "Black money"


PARTE PRIMA 
L’esperimento
Parigi, rue des Écoles Candice Monroe spalancò gli occhi e si sentì soffocare. Non capiva cosa le stesse succedendo, avrebbe voluto gridare ma non ci riusciva. Cercò di tirarsi su, ma le risultò impossibile: aveva i polsi legati dietro la schiena e le caviglie bloccate. Era in trappola, rinchiusa in un luogo stretto che puzzava di gasolio. La cosa peggiore, tuttavia, era che non ricordava come fosse finita in quella situazione. Provò inutilmente a liberare le mani. Il suo respiro si fece affannoso. Il nastro adesivo che le copriva la bocca quasi non lasciava passare l’aria. Tentò di calmarsi, anzi se lo impose per non morire asfissiata. Rallentare il ritmo cardiaco, respirare col naso. Difficile stando in quel buco, legata con del fil di ferro che le tagliava la pelle dei polsi e delle caviglie. Chiuse gli occhi e si sforzò di razionalizzare, di ricostruire. L’ultimo ricordo nitido che aveva era quello di lei che saliva su un taxi, subito dopo la conferenza alla Sorbonne. Da lì, buio completo.
Decise di concentrarsi sui rumori. Avvertiva un rollio continuo, ogni tanto sobbalzava e, ben presto, si rese anche conto che la sua prigione si muoveva. Doveva trovarsi su un furgone o nel baule di un’automobile. L’andatura diminuì e il mezzo s’arrestò. Sentì una portiera sbattere e, un attimo dopo, il portabagagli si spalancò. A quel punto fu investita dalla luce artificiale di una lampada al neon. Un uomo le sorrise. Un cappello a tesa larga calato sulla fronte e una folta barba a coprirgli il volto. Dal poco che riusciva a intravedere, sembrava che si trovassero in un garage o in un’autorimessa. «Si calmi, dottoressa Monroe. Lei è qui per un esperimento scientifico. Se verranno confermate le sue tesi, forse vivrà. In caso contrario...» L’uomo parlava un inglese perfetto. Da straniero, certo, ma impeccabile. Candice iniziò a tremare. Conosceva il suo nome, l’aveva chiamata dottoressa. Ma di che esperimento si trattava? E poi cosa significava “Se verranno confermate le sue tesi, forse vivrà”? Spalancò gli occhi terrorizzata mentre lui le si avvicinava con una siringa in mano. «Non siamo ancora arrivati a destinazione» la informò. «Cambiamo solo mezzo di trasporto.» La donna cercò di opporsi, ma la tenne ferma infilandole con perizia l’ago nel braccio destro. «Calma» le sussurrò mentre il liquido le scorreva nelle vene. In meno di un minuto Candice perse i sensi, lui la sollevò senza difficoltà e l’adagiò nel portabagagli di un’altra automobile.

2. 
Milano, piazza Affari L'obbiettivo era in ritardo e Klaus Hoffmann cominciava ad inquietarsi. Secondo le informazioni, Harib Al Alawi, vicepresidente esecutivo della Bank Muscat in Oman, avrebbe dovuto avere un incontro con alcuni broker subito dopo la chiusura delle contrattazioni, vale a dire circa mezz’ora prima, solo che ancora non si era fatto vivo. Milano era soleggiata e umida, e Klaus, che indossava una pesante tuta da motociclista in pelle, sudava copiosamente. A cose fatte, se la sarebbe tolta per gettarla in un cassonetto dei rifiuti insieme ai guanti e alla pistola, ma fino ad allora avrebbe dovuto sopportare quella canicola così atipica per il mese di settembre. La sera precedente, quando era salito sul treno, a Monaco di Baviera pioveva a dirotto e l’aria era frizzante, lì invece pareva fosse ancora piena estate. Si era appostato ormai da ore davanti alla sede della Borsa, un imponente palazzo in marmo bianco corredato all’esterno da quattro grandi piedistalli che sorreggevano ciascuno una statua. Su una targa aveva letto il nome dell’edificio, PALAZZO MEZZANOTTE, dal cognome dell’architetto che l’aveva progettato nel 1932. La cosa che però aveva incuriosito di più il tedesco era la strana scultura che troneggiava al centro della piazza antistante. Alta più di dieci metri, era stata realizzata con il bianchissimo marmo di Carrara e raffigurava un’enorme mano con il dito medio alzato. Vedendola, Klaus aveva accennato un sorriso: quel gesto e il suo significato erano inequivocabili. Restava da capire a chi fosse rivolto: ai risparmiatori, ai broker, ai cittadini che passavano di lì? Non ebbe molto tempo per rifletterci, perché la berlina nera che aspettava finalmente spuntò da via delle Orsole fermandosi proprio davanti alla scalinata del palazzo, e lui si preparò all’azione.

3 Roissy-en-France, rue de la Fossette 
Il riverbero era accecante. Candice riaprì gli occhi e tentò istintivamente di ripararsi con una mano, ma non ci riuscì: le aveva ancora bloccate, anche se in una posizione diversa. Non era più rinchiusa in un portabagagli, ma si trovava in una stanza senza finestre completamente bianca, con luci fortissime sopra la sua testa. L’ambiente era spoglio, fatta eccezione per la sedia su cui era immobilizzata e il tavolo bianco davanti a lei dove erano posati un microfono e un laptop color argento. Nient’altro. Le era stato tolto il bavaglio e lei iniziò a urlare con quanto fiato aveva in gola. Gridò, chiese aiuto, ma capì subito che era inutile. La stanza era pensata apposta perché nessuno potesse sentirla; un luogo dove condurre in tranquillità “l’esperimento”... Brividi freddi le correvano lungo la schiena, ma non si trattava di paura: era senza vestiti e si vergognava con solo l’intimo indosso. Tutto ciò che aveva era scomparso: la borsa, il cellulare, il cappotto. Via tutto. Nemmeno le scarpe. Ed era una sensazione terribile perché il pavimento era allagato. L’acqua gelida le arrivava quasi alle caviglie, tremava e aveva la pelle d’oca. Urlò nuovamente. Una, due, tre volte. Sentiva la gola secca, moriva di sete, ma cercò d’ignorare quello stimolo. Si dibatté, ma la sedia era imbullonata al pavimento e lei vi era legata con una serie di lacci di cuoio. Le ferite sulle caviglie e sui polsi causate dal fil di ferro che la teneva prigioniera durante il trasporto in auto le erano state medicate e fasciate con della garza. “Quindi, almeno per ora, non mi vuole morta” pensò. Ben presto capì che le era impossibile liberarsi. Non poteva scappare, quindi iniziò a porsi delle domande: chi era l’uomo che l’aveva rapita? Che intenzioni aveva? L’avrebbe torturata? Perché medicarla, allora? Mille pensieri affollavano la testa di Candice. Si sentiva frastornata. Ricordava solo di essere salita su quel taxi e poi di essersi assopita. Proprio lei che soffriva d’insonnia da anni! Mentre razionalizzava, udì un cigolio alle sue spalle. Una porta che si apriva. Non poteva voltare la testa, ma avvertì i passi di qualcuno nell’acqua. Anche l’odore acre di tabacco e caffè. L’aveva già sentito, era dell’uomo con la siringa, quello che l’aveva drogata. Le passò accanto e si andò a mettere sul lato opposto della stanza. Indossava un passamontagna nero. L’unica cosa che lei poteva vedere erano i suoi occhi azzurri. Glaciali. Portava un paio di stivali di gomma verdi, alti fino al ginocchio, dei jeans sgualciti e un maglione marrone. Alle mani aveva guanti da chirurgo, per non lasciare impronte. Candice si sentì rabbrividire. Era praticamente nuda dinanzi a uno sconosciuto. Un maniaco. Legata da cinghie di cuoio come in un gioco sadico e con i piedi immersi nell’acqua. Tremava e non riusciva a parlare, così aspettò che fosse lui a rompere il silenzio con una domanda inquietante. «Allora, Candice: è pronta per il nostro esperimento?»

sabato 20 novembre 2021

"IL CASO VERSACE", il libro del giornalista di Vanity Fair che racconta nei dettagli il caso sull'omicidio Gianni Versace

Nota 
Apparso per la prima volta nel 1999, due anni dopo la tragica scomparsa di Gianni Versace, il libro di Maureen Orth – all’epoca, e ancor oggi, giornalista di Vanity Fair – rappresenta tuttora il resoconto più approfondito e completo della vicenda di Andrew Cunanan e dell’omicidio del celebre stilista italiano. Frutto di un imponente e scrupoloso lavoro di ricerca, basato sull’analisi di migliaia di pagine di rapporti di polizia e su oltre quattrocento interviste che l’autrice ha condotto con i protagonisti, i comprimari e i semplici spettatori della storia, e caratterizzato da una rigorosa verifica delle fonti, questo libro non è mai stato oggetto di azioni legali o di contestazioni dirette a bloccarne la diffusione ed è stato costantemente ristampato. In virtù della qualità riconosciuta del materiale qui raccolto da Maureen Orth, su questo libro è basata la seconda stagione della serie TV American Crime Story: The Assassination of Gianni Versace, prodotta dal canale televisivo statunitense FX e trasmessa in molti Paesi a partire dal mese di gennaio 2018.

Prologo
Il telefono squillò verso l’una di notte, e rispose mio marito, ancora mezzo addormentato. «Vorrei parlare con Maureen Orth. C’è Maureen Orth, la scrittrice?» La voce maschile era insistente. «Chi è lei?» «Voglio parlare dell’articolo.» Una pausa, poi un clic. «Credo sia lui», disse mio marito. «Lui chi?» «Il tizio sul quale stai scrivendo.» «Che cosa? Andrew Cunanan, intendi?» «Strano», commentò mio marito. Poi si girò dall’altra parte e si riaddormentò. Io, invece, ero ormai sveglissima. Passò una decina di giorni, e poche ore dopo che Gianni Versace, il celebre stilista e icona gay, era stato ucciso, il telefono squillò di nuovo, poco dopo l’una di notte. Dovevo partire l’indomani mattina per Miami per scrivere un articolo sull’omicidio Versace, giacché il sospetto numero uno era proprio Andrew Cunanan. Erano quasi due mesi che scrivevo articoli su Cunanan su Vanity Fair, la sua rivista preferita. Oltretutto avevo scoperto che aveva conosciuto Versace diversi anni prima e che era sospettato di avere commesso altri quattro omicidi, tra cui quello del suo migliore amico e dell’unico uomo che avesse mai detto di amare. «Pronto, c’è Maureen Orth?» Mio marito riconobbe la voce: maschile, effeminata. «Chi parla?» Ma la persona all’altro capo del filo ci ripensò. I suoni di fondo dell’interurbana s’interruppero bruscamente. Non saprò mai se in quel momento persi lo scoop della mia vita. In circostanze diverse, apparire su Vanity Fair sarebbe stata la realizzazione di un sogno per Andrew Cunanan. All’inizio del luglio 1997, però, stava per diventare l’oggetto di una delle più vaste cacce all’uomo nella storia dell’FBI. Migliaia di persone avrebbero cercato di stanarlo, ma nessuno ci riuscì. Nove giorni dopo, il suo corpo fu ritrovato in una casa galleggiante di Miami Beach. Non solo, ma i suoi delitti e il suo viaggio sanguinoso e tragico attraverso l’America avrebbero riempito le pagine dei giornali per mesi. Quella che all’inizio fu erroneamente scambiata dai media per una «lite tra amanti omosessuali», circoscritta al mondo gay, balzò sulle prime pagine delle testate più importanti e acquistò rilievo a mano a mano che Cunanan, perdendo ogni scrupolo, diede sfogo a una violenza senza pari: le sue imprese apparvero sulla copertina di Time e Newsweek. Ma prima di uccidere Gianni Versace, prima che la sua terribile reputazione si diffondesse in tutto il mondo, Andrew Cunanan aveva già attraversato un universo parallelo dell’America omosessuale odierna, cominciando da una vita squallida fatti di espedienti e droga, fino ad arrivare al mondo sofisticato dei ricchi che nascondevano la propria omosessualità. Andrew, peraltro, si trovava a suo agio in qualunque ambiente. Sapeva parlare di arte e architettura, ed era ferratissimo in materia di marche e status symbol. Si era fatto mantenere, e aveva soggiornato a Palazzo Gritti a Venezia, oltre che a Saint-Jean-Cap-Ferrat. Poi, però, si era innamorato di un giovane architetto in carriera e, verosimilmente perché l’uomo ricco, più vecchio di lui, che lo manteneva, non ha voluto regalargli la Mercedes dei suoi sogni, aveva rotto con il mondo dorato al quale aveva sempre aspirato. Qualunque cosa riuscisse a procurarsi, Andrew Cunanan voleva sempre di più: più droga, sesso più trasgressivo, vino più pregiato. Per qualche strano motivo, si era convinto che tutto gli fosse dovuto. E perché no, in fondo? Era sempre il centro della festa, il ragazzo più brillante a tavola. A ventisette anni, però, era anche narcisista, egocentrico e vanaglorioso, un bugiardo patologico che s’immaginava realtà alternative ed era tanto intelligente da convincere anche gli altri. Nei gruppi di persone che frequentava, superficiali o semplicemente ingenue, Andrew sapeva rendersi indispensabile. Sotto la vernice del fascino, però, si annidava una psicosi pericolosa, alimentata dai film pornografici violenti che amava guardare e dall’assunzione di cristalli di metanfetamina, cocaina e varie altre sostanze molto diffuse nelle comunità omosessuali, sebbene si tenda a non parlarne. «Chiunque abbia provato la metanfetamina e si sia fatto un brutto viaggio può ripensare a quello che è successo [e capire]», afferma Joe Sullivan, ex utilizzatore di crystal meth che aveva conosciuto Andrew a San Diego. «Mi pare impossibile che a nessuno sia venuto in mente di associare a questo percorso un consumatore di ice.» Dovevo parlare di Andrew Cunanan, e quindi spettava a me cercare di identificare le bugie e mettere a nudo le contraddizioni della sua storia. Non fu facile svelarne i segreti. Era un bel bambino di origini filippine e italiane, con un QI di 147. Ma i suoi genitori avevano un matrimonio infelice, e contavano su di lui, il figlio minore, per salvarli e redimerli. Essendo costantemente sotto pressione, questo intelligentissimo bambino non riuscì mai a formarsi una personalità adulta coerente. Più scoprivo dettagli sul suo conto, più mi rattristava vedere che le droghe e le pratiche sessuali trasgressive lo involgarivano, e la prostituzione praticata a molti livelli diversi lo lasciava pigro e senza difese. Quando si ritrovava da solo, non aveva risorse professionali o morali sulle quali appoggiarsi. Era stato sedotto da un mondo avido, crudo, pornografico che considerava i valori superficiali di giovinezza, bellezza e denaro come i massimi risultati cui aspirare per essere felici. Alla fine, invece, Andrew Cunanan, spiritoso e intelligente, il prodotto di una madre esageratamente cattolica e di un padre altrettanto fanaticamente materialista, aveva ceduto al proprio lato oscuro e malvagio, e aveva inflitto un dolore incalcolabile a chi lo circondava. Nel seguire il suo terribile percorso, sono rimasta affascinata dall’idea che non stavo raccontando solo la storia di un ragazzo tormentato e del suo accesso di violenza. Stavo anche narrando una sorta di odissea attraverso l’America di fine secolo: negli ultimi due decenni si erano formate nuove comunità, in cui il politically correct di un finto crogiolo culturale (le cui componenti rifiutavano di amalgamarsi) paralizzava di fatto l’attività delle forze di polizia e dei media, e dove il denaro serviva a coprire gli errori commessi. Certe cose, naturalmente, non cambiano mai, come per esempio la capacità delle famiglie potenti d’impedire la rivelazione della verità e di proteggere i segreti. Durante i miei viaggi ho scoperto che i gay, intesi come gruppo organizzato, sono in fasi dinamiche e alternanti di formazione politica. La loro capacità di organizzarsi a livello locale ha un impatto sull’influenza che riescono a esercitare sulle forze dell’ordine. A San Francisco e New York, Andrew avrebbe fatto fatica a nascondersi. A South Beach, paradiso dei turisti, invece, la vasta comunità gay non chiede protezione. 
Spesso rifiuta perfino l’idea stessa di avere bisogno di protezione, anche sessuale. South Beach a parte, mi sono imbattuta nell’incapacità, in tutto il Paese, di ammettere l’ampio uso di sostanze stupefacenti, e nell’esistenza di strutture create per favorire tale tossicodipendenza, all’interno della comunità gay ma anche da parte delle forze dell’ordine, che sembrano a disagio nell’affrontare certi temi per timore che vengano interpretati come un attacco nei confronti degli omosessuali. Se l’FBI avesse conosciuto meglio l’universo gay della Florida meridionale, per esempio, Andrew Cunanan, uno dei dieci criminali più ricercati, non sarebbe mai riuscito a vivere indisturbato all’hotel Normandy Plaza per quasi due mesi o a lasciare un camioncino rosso rubato in un garage per settimane intere. Invece, la caccia all’uomo che investì tutto il Paese e costò milioni di dollari diede ben pochi risultati. Kevin Rickett, il giovane agente dell’FBI responsabile della squadra speciale per la cattura del fuggitivo in Minnesota, mi disse: «Non vi furono molti progressi durante le indagini perché non riuscimmo mai ad avvicinarci a lui. Non lo raggiungemmo mai». La vicenda, che mi condusse da una costa all’altra, mi portò a scoperte inimmaginabili. Non avevo idea, all’inizio, dell’effetto profondo che il processo di O.J. Simpson aveva avuto sull’accusa, a livello locale e statale: ormai i procuratori locali e statali sono estremamente riluttanti a riconoscere la colpevolezza di un presunto omicida se le prove indiziarie non sono solidissime. «O.J. ha rovinato tutto», mi disse Paul Scrimshaw, investigatore capo a Miami Beach durante le indagini sul caso Versace. «Hanno tutti paura, nessuno vuole fare una figuraccia. Ogni indagine adesso è rovinata per colpa sua. Barry Scheck andrebbe sventrato e squartato.» Alla fine fu confortante vedere l’FBI, almeno a livello nazionale, sforzarsi realmente di rimediare agli errori del passato. I terribili crimini di Andrew Cunanan si rivelarono un catalizzatore positivo che permise di adottare pratiche migliori e favorì la cooperazione tra forze dell’ordine diverse, oltre che tra la polizia e la comunità gay. A tutt’oggi, però, sebbene esista un meccanismo per rintracciare un’auto scomparsa su scala nazionale, non c’è un sistema per trovare una persona scomparsa. Andrew Cunanan era il personaggio perfetto da dare in pasto ai tabloid che, dalla vicenda di O.J., erano diventati avidi di cronaca nera e sensazionalismo. La produttrice della trasmissione Hard Copy Santina Leuci afferma: «Cunanan aveva tutti i numeri giusti: sesso, violenza, ed era un serial killer. Inoltre era in fuga, tutta la polizia gli stava dando la caccia, tutto il Paese era in attesa che venisse catturato». Cosa succede quando una notizia diventa la notizia numero uno in America oggi? Mi trovai all’improvviso nel bel mezzo di uno tsunami. I giornali scandalistici sono l’equivalente odierno dei circhi dei mostri di inizio Novecento. Adesso abbiamo fenomeni da baraccone ventiquattr’ore su ventiquattro che possiamo guardare insieme, ogni giorno e ogni notte, e ogni anno certi individui vengono eletti Numero Uno. Andrew Cunanan – «È gay! È malato! Uccide gente ricca e famosa!» – ebbe quel ruolo per un po’, prima di essere sostituito da una principessa. Sono rimasta colpita dalla quantità e velocità con cui circola il denaro quando esplode una vicenda del genere. Un giornalista tradizionale della carta stampata parte svantaggiato. Regna una sorta di frenesia generale, in cui la copertura mediatica dell’evento influenza le indagini e le reazioni della polizia, e alla quale chiunque lo desideri può contribuire con trasmissioni televisive, stampa, Internet, mostrando le famiglie in lutto durante i funerali, la polizia assediata eccetera. È una soap opera globale, che va in onda ventiquattr’ore al giorno. Le famiglie delle vittime, sopraffatte dagli eventi, vengono date in pasto al mostro affamato, e lo stesso vale per poliziotti e uomini politici. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi trovavo in un bar di gay e lesbiche nel quartiere di Castro, a San Francisco, con uno spiritoso abitante della zona, Doug Conaway, che mi mostrò una griglia di metallo accanto a una banca sull’altro lato della strada. Era coperta di mazzi di fiori avvizziti, in memoria della principessa Diana. I bouquet, disse, erano un modo per ricordarla. Allo stesso modo, il quartiere aveva voluto partecipare al lutto per la perdita di Andrew, che era uno di loro. «Quando sono tornato a casa e ho saputo che avevano sparato a Versace e che pensavano fosse stato Cunanan, mi sono detto: oddio, una volta abitava qui», mi confidò Conaway. «Se non fosse stato per Cunanan, non avremmo visto Diana al funerale di Versace, ed era stato qualcuno del nostro quartiere il responsabile. Poi, però, quand’è stato trovato il corpo di Cunanan, ci sono rimasto male. A cosa devo rimettermi a pensare, adesso? Alla riforma dei finanziamenti delle campagne elettorali? La morte di Diana è stata una manna, una specie di sceneggiato. La sua morte ci ha tenuti occupati un bel po’, qui sulla nostra strada.» Poi mi guardò senza battere ciglio e decise di continuare: «Se adesso Elton John si becca l’AIDS, e Liz Taylor va al suo capezzale, le viene un infarto e muore, e Michael Jackson va al suo funerale e gli cade la faccia, il legame che ci unisce diventerà chiaro a tutti». Alla fine del mio reportage ripensai a quello strano viaggio, dall’Accademia navale di Annapolis al quartier generale dell’FBI a Washington, dai campi di mais del Midwest ai grattacieli di Chicago, da Mr. S Leather di San Francisco al San Francisco Opera. Avevo camminato sulle spiagge esclusive di La Jolla e me l’ero spassata tra i gay di South Beach. Avevo incontrato rappresentanti autorevoli delle forze dell’ordine, spacciatori di crystal meth, investigatori della Squadra Omicidi, master in prigioni sotterranee sadomaso e personal trainer. Alcune delle mie fonti erano in prigione. Avevo conosciuto capi della polizia e ragazzi che si prostituivano e guadagnavano diecimila dollari in un fine settimana. Avevo incontrato perfino il pianista di una casa di tolleranza. Andrew Cunanan aveva provocato un terremoto in tutti quei mondi. Dopo la sua morte, ho cercato di mettere insieme i pezzi.

Redazione Gialli&Neri 


venerdì 19 novembre 2021

Vi presentiamo "Giallo miele" il romanzo di Enrico Pasini


Trama 
Salvo e Zenobia, diversi per storie e culture, si trovano catapultati in una trama intrigante, il cui racconto scorre attraversando tre continenti. Più storie in un mistero condito di sapori, colori e profumi, di miele e cannella. Seguendo le tracce del Miele in viaggio tra Argentina, Cile e Italia, per terminare in Austria, Salvo e Zenobia schivano tradimenti e doppio gioco.  Riusciranno a porre fine al piano farneticante del Cileno?  La soluzione dell’enigma richiede il concorso di tanti, ognuno con il suo compito. E anche il lettore sarà coinvolto.  Inizia quasi per caso questa storia, con Salvo che, licenziato dalla multinazionale ICT per la quale lavorava, trova impiego in una rivista di agri-apicoltura con un ruolo silente, fatto di osservazioni, di appunti, di connessioni. Di relazioni.  E quale relazione lega Salvo e Zenobia, donna dalla esuberanza coinvolgente? Da anni al servizio della Ditta, Zenobia è, con gli occhi sul mondo, l’interprete, la voce di tantissimi uomini e donne di affari, di malaffari, politici rampanti ed altri appassionati, faccendieri, uomini ed istituzioni.  Ora, insieme a Salvo, si trova di fronte ad un mistero celato tra bytes ed immagini codificate.  Zenobia, forte della sua esperienza internazionale, capace di tirarsi fuori da mille situazioni, anche lei, per un momento, abbassa la guardia. Sarà la vittima sacrificale braccata e predata dal Cileno?  L’indagine internazionale si incammina sulla giusta via grazie ad una intuizione di Salvo e Zenobia. Ed ora, come tante api operose dentro un alveare, i protagonisti dell’indagine si muovono alla stessa stregua di un super-organismo indipendente, strutturato e con un’alta coesione. Il lettore scoprirà la vera identità e funzione della Ditta, chi la dirige, chi indirizza i destini delle donne e uomini del racconto e l’incrociarsi delle loro vite. E il miele? Nettare degli dèi, fonte di vita, può divenire veicolo di morte manovrato da un uomo di gentile aspetto ma con l’anima criminale e perversa, forgiatasi negli anni della dittatura cilena?  Chi sarà la preda e chi il cacciatore? E, come sempre, quando ogni tassello sembra aver trovato la sua giusta collocazione nel mosaico esagonale, ecco la combinazione che ci farà di nuovo chiedere se…

L’Autore 
Enrico Pasini nasce a Roma nel 1959. Per anni nel settore della Information Communication and Technology, nel 2012 si avvicina al mondo delle api e dell’editoria di settore. Dal 2016 è cofondatore della rivista specialistica «Apinsieme - Rivista Nazionale di Apicoltura». E dal 2015, accoglie ospiti da tutto il mondo nella sua casavacanza a Roma, Petrapapae. È al suo esordio letterario. Ama ricordare un verso di Dante: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. 

giovedì 18 novembre 2021

I luoghi del romanzo giallo-politico “L’alito rovente del Drago”

L’intreccio giallo sulle trame nere dei primi anni ’70 ci porta innanzitutto dalle verdi periferie del veneziano alla città di Mestre, luogo natale dei due investigatori, milanesi d’adozione, protagonisti del romanzo. Mestre è una città che qualcuno chiama “piccola Milano”, non certo perché abbia il fascino e la bellezza della metropoli meneghina, ma perché comunque dal dopoguerra si è talmente sviluppata da offrire i servizi di un capoluogo di provincia o di regione.

Il suo scorcio più affascinante è forse la Piazza con la Torre dell’Orologio, ma molto bella è anche la via Giordano Bruno (e parco adiacente) con le rovine dell’antica Torre Belfredo che non hanno nulla da invidiare a uno scorcio della Roma antica. Il romanzo tocca Venezia non tanto nel suo tessuto urbano ma nella sua laguna, le sue isole, in particolare un’isola immaginaria, l’Isola del Morto, luogo di snodo cruciale per la trama: isole spesso disabitate, occasioni di ritrovo per pescatori o compagnie di giovani, isole di salso, di pesce, di onde. 

Quindi abbiamo la fascinosa Padova, con i suoi portici, i ristoranti presso i suoi fiumi, la magica zona di Santa Sofia ovattata, colta, silenziosa. Cuore della narrazione è però la Milano degli anni ’70, progenitrice della futura Milano da bere, con le bische, gli intrallazzi politici mai finiti dopo la tragedia di Piazza Fontana, e le sue meraviglie artistico-architettoniche: dalla scintillante Piazza Duomo ai viali ombreggiati di Foro Buonaparte, dal Castello Sforzesco a Piazza della Scala, dai palazzi colorati con il tipico giallo milanese, alle affascinanti case di ringhiera.

Infine c’è un paesino di periferia, immaginario proprio come l’isola veneziana: Colbiate, dove vivono i due poliziotti, che potrebbe assomigliare a Cologno monzese, a Corsico, a Cesano Boscone o a tanti altri paesi brulicanti di gente, a tratti degradati ma a tratti con una loro anima verde, con un loro tentativo di svilupparsi a misura d’uomo.

mercoledì 17 novembre 2021

Il trailer ufficiale di "Un caffè per la vittima" di Pamela Luidelli


Venerdì 19 novembre, alle ore 21:00, il "Programma di Classe" in onda su "Radio Cernusco Stereo inBlu" tornerà a parlare di romanzi... questa volta però, affrontando un genere molto curioso ovvero il "thriller ironico". In DIRETTA sarà ospite in "Urban Night #LIVE" sarà la scrittrice Pamela Luidelli che presenterà il suo romanzo edito da "Ali Ribelli Edizioni" dal titolo "Un caffè per la vittima".

"TERRA NOSTRA": il romanzo di Amato Salvatore Campolo attraversa lo Stretto

Lo stretto di Messina. Un luogo magico dove si intrecciano storie millenarie, dall'occupazione dei  Borboni allo sbarco di Garibaldi, dal terremoto del 1908 che fece oltre centomila vittive fino ai "moti del '70" di Reggio Calabria. Un luogo conosciuto in tutto il mondo per la sua centralità nel Mediterraneo e per un progetto ambizioso ma molto criticato, "il ponte sullo Stretto".
Ma questo angolo di paradiso purtroppo è anche molto noto a livello mondiale per la cronaca nera a causa dell'elevata percentuale di criminalità organizzata. "Terra Nostra” proietta un’immagine ben specifica del fazzoletto di terra a sud di Reggio Calabria che si affaccia sullo stretto, quella della vita delle “famiglie di ‘ndrangheta”: una vita di crimine, di omertà, di violenza; ma anche di forti legami famigliari, dove le tradizioni non solo sopravvivono, ma diventano un punto di riferimento su cui orientare la propria esistenza. 
Nel romanzo di Campolo si attraversa lo Stretto di Messina con il famigerato traghetto, per degustare "l'arancino della Caronte" (conosciuto in tutto il mondo) nel piccolo bar al suo interno, ed osservare la stupenda vista della Sicilia che si avvicina sempre di più durante la traversata. Insomma, per chi è del posto o ha attraversato almeno una volta lo Stretto sa di cosa stiamo parlando.
In questo viaggio nei paesi immaginari della Calabria; Casalotto, Bovese e Trimpoli affacciati sul mar Jonio, si percorrerà la famosa Statale 106, per alcuni media definita la "Strada della morte" dove conosceremo boss di vecchio stampo, criminali di “nuova generazione”, imprenditori corrotti, disoccupati disperati, cinici doppiogiochisti, picciotti e killer senza scrupoli. Qui la dimensione “famigliare” è la chiave di tutto. 


Redazione Gialli&Neri